22 agosto, 2025

È uscito "Ritratto di un giovane uomo in rosso"

Vi segnaliamo l’uscita il 15 giugno di Ritratto di giovane uomo in rosso di Stefano Cavallini, il terzo episodio della serie Le avventure di un detective di corna. Un romanzo che non può essere ascritto in tutto e per tutto alla categoria dei gialli, ma che tra attualità e leggerezza, ne possiede certe caratteristiche.

Gratuito con Kindle Unlimited. Cartaceo € 8,50.

(Habanera Books - 215 pagine - https://wp.me/PgmPDf-7g).

Eccovi l’incipit del primo capitolo, sperando di intrigarvi e farvi sorridere qua e là. Buona lettura.

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1 - CINQUANTADUESIMA STRADA


Era uno di quei periodi di scarso lavoro e di rari favori a mio fratello. Trascorrevo le giornate a sistemare lo studio perché mi ero trasferito, Robespierre compreso, abbandonando l’appartamento in affitto, diventato scomodo e costoso. La stanzetta in più, mai utilizzata prima, l’avevo liberata dalle cianfrusaglie accumulate col tempo e l’avevo attrezzata con un letto, un comodino e un armadio, eliminando anche parecchi vecchi indumenti.

Il gatto vagava incerto, osservando intorno, emettendo di quando in quando un miagolio di smarrimento.

Riordinavo anche l’archivio sul computer. Schede, registrazioni, foto, appunti; una specie di pulizie di primavera. L’unica differenza era che in realtà non buttavo niente. Caso per caso creavo una cartella con denominazione, mese e anno, inserivo i documenti e infine la trasferivo sul disco esterno di backup, se ne avessi avuto bisogno in futuro. Come alzare il tappeto e spazzarci lo sporco sotto.

Era calma piatta per gli adulteri e rodevo dalla voglia di ascoltare un po’ di jazz con musicisti veri, così nel pomeriggio avevo prenotato una cena al Cinquantaduesima Strada, un jazz club dal nome evocativo, dove speravo di ascoltare dell’onesta musica e dove avrei consumato una normale cena, al posto di panini, tartine e spizzichi vari consumati in bar e locali devastati da musica di sottofondo agghiacciante, in voga un po’ ovunque in quest’epoca.

Il Cinquantaduesima Strada era forse l’unico club dedicato alla musica afroamericana della città. Il nome ricordava la strada di Manhattan dove dagli anni ’40 del '900 si erano sviluppati club in cui i musicisti di colore, dopo aver suonato lo swing nelle grandi orchestre da ballo bianche, come sidemen, si ritrovavano in quegli angusti luoghi a suonare "tra di loro". Suonavano per niente, per una bevuta, per stare insieme, tra amici. Da quei club, come il Three Deuces o il Royal Roost sarebbero poi usciti i migliori jazzisti del mondo e il bebop.

Quando entrai nel locale aleggiava My funny Valentine, trasportando l’avventore nella giusta atmosfera di un jazz club, anche se il brano non apparteneva al repertorio bop. Nella sala mancava il fumo sospeso delle sigarette e mancavano i coloured men, ma per il resto poteva sembrare un club della Fifty-second street, anche se non ero mai stato a New York e avevo visto poche foto sbiadite on line.

Il trombettista non era male. In un musicista contano forza e chiarezza; e lui ce l’aveva. La sezione ritmica faceva il suo lavoro, ma nelle improvvisazioni contrabbasso, batteria e pianoforte apparivano svogliati. Si sa: la routine ammazza l’arte.

Il giusto applauso finale mise tutti d’accordo; ero solo io il criticone di turno e mi sarei dovuto decidere una buona volta a smettere di criticare e accettare il cambiamento. L’epoca del jazz da ballo, del jazz dell’affermazione dei neri d’America, dal blues al free jazz a John Coltrane, per non parlare delle avanguardie della musica seriale, era scomparsa per sempre. Tutta la musica, ma proprio tutta, era stata scritta e suonata. I primi anni ’70 del '900 erano stati lo spartiacque e da allora non c’era stato più niente di nuovo da suonare, né da ascoltare, dovevo farmene una ragione e per di più non fregava a nessuno, delle mie opinioni.

Durante l’applauso, tra le mani alzate a me vicine vidi muoversi un avambraccio conosciuto. Lo avevo già visto da qualche parte. All’anulare sinistro portava un grosso anello d’argento a scudo e al polso un ingombrante orologio d’acciaio. Era un trentenne tirato a lucido in compagnia di una signora facoltosa, considerando la parure e il vestito, ma di almeno venticinque anni più vecchia, malgrado l’elaborata pettinatura di un nero perfetto. Non potevo vederle il viso nei dettagli, un po’ per la penombra e un po’ per la posizione.

Finito l’applauso le luci si alzarono e fu annunciata la cena; subito entrò un sottofondo in diffusione dove riconobbi You go to my head di Frank Sinatra con un sontuoso arrangiamento orchestrale, può darsi di Nelson Riddle.

In quel momento la signora si alzò e la vidi bene in faccia: era Emilia Lanfranchi, moglie di Ruggero Bonetti e il trentenne tirato a lucido era il suo toy boy: beccati all’Hotel Europa, un po’ di tempo prima per conto del marito, che poi, alla fine, avevo preferito ingannare.

(continua)

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