10 settembre, 2017

Il Festival Internazionale della Marionetta di Charleville

Torna con cadenza biennale il Festival Mondial Des Theatres De Marionnettes dal 16 al 24 settembre, nella cittadina francese di Charleville-Mezieres, vicino al confine con il Belgio, nella regione delle Ardenne.
È probabilmente la manifestazione più importante al mondo, sicuramente in Europa, dedicata al Teatro di Figura in ogni sua espressione possibile: dai burattini della tradizione napoletana (le Guarrattelle) alle moderne rappresentazioni con figure umane scolpite in gommapiuma; dalle ombre dell'antica Tahilandia alle rappresentazioni umbratili di oggi, gestite con computer e luci al led.
Una fantasmagoria di spettacoli, sia per strada che nei teatri e nei luoghi predisposti, che trasformano la cittadina in un continuo spettacolo, dalla mattina a notte inoltrata.
Naturalmente le compagnie coinvolte provengono dai quattro angoli del pianeta e rappresentano spesso, nella propria categoria, il meglio che si possa trovare; il risultato è un esauriente visione di questo mondo particolare, fatto di oggetti che raccontano storie.
Un mondo che fa ancora entusiasmare e stupire tutto il pubblico degli adulti e dei bambini per un oggetto inanimato come un burattino o una marionetta che sia mosso su di un palcoscenico, in una baracca o su un'inquadratura nera.
Nonostante l'assedio del gioco elettronico, della realtà virtuale e dei film americani, i burattini e le marionette continuano ad affascinare, a vivere nel loro mondo fantastico per raccontarci storie, a narrarci le loro vicende, pur sapendo che dietro a quei personaggi c'è un uomo, un manipolatore, in grado di controllare perfettamente il movimento della sua creatura, fino a farla sembrar vera e autentica.
E' lì davanti a noi, senza niente che si interponga tra noi e quei movimenti, senza schermi, con quelle facce a tratti vere e quei sentimenti uguali ai nostri.
La luce, il buio, la penombra, la musica, i rumori, le parole (poche) e le scene fanno il resto, il resto di un mondo vivo e palpitante che scompare in un soffio: appena le luci della platea si accendono.

Stefano Cavallini

03 settembre, 2017

Il lungo agosto 2017 di Barga Jazz - parte seconda

Andrea Tofanelli in azione a Barga Jazz XXX nel 2016
Come promesso eccoci all'intervista che chiude questa carrellata su Barga Jazz 2017. La manifestazione ha avuto un ottimo successo di pubblico (ecco il link diretto www.bargajazz.it), ma è stata un'altra cosa, ha perso la sua particolarità ed è diventata, ci auguriamo solo per quest'anno, una rassegna di musica jazz simile a tante altre.
L'interessante intervista che vi proponiamo riguarda uno dei musicisti che ha fatto parte della Barga Jazz Big Band appena è stato in grado di suonare il suo strumento; nato a Viareggio, suona la tromba e il suo mentore è Maynard Ferguson: Andrea Tofanelli.
Musicista intercontinentale, legato alla Yamaha per lo strumento, ha in questi anni partecipato, a importanti concerti e festival, incisioni con importanti orchestre e proprie formazioni, riuscendo a inserire anche periodi d'insegnamento.
- Sei stato molto attivo ultimamente.
- Sì, in questi ultimi la mia vita è stata davvero frenetica, tra concerti e insegnamento in tutto il mondo, trasmissioni tv e attività d’incisione sia in Italia che all’estero.
Nel 2012 e 2016 ho fatto parte della band di Gino Vannelli nei suoi tour, unico trombettista italiano che Vannelli abbia mai scritturato.
Da solista ho suonato negli Stati Uniti, in Giappone, Canada, Australia, Germania, Norvegia, Inghilterra, Lussemburgo, Malta, Finlandia, Francia, Russia, Liechtenstein, Austria, Svizzera, Olanda, Belgio, Scozia, Polonia, Grecia, Spagna, Portogallo, Egitto, Serbia e Principato di Monaco.
Nel 2016, al jazz club Herr Nielsen di Oslo, uno dei miei progetti, il mio tributo a Maynard Ferguson (col quale ho avuto l’onore di suonare più volte in Italia, Inghilterra e USA) ha registrato l’unico tutto esaurito della stagione. E sold out  simili si sono ripetuti negli USA, in Polonia, in Serbia, in Giappone e in tutti i concerti italiani degli ultimi 5 anni.
- Chissà quanti complimenti!
- Pensa che in una delle incisioni più fortunate e che mi ha dato più soddisfazione, è stata quando come prima tromba e solista nella Big Band dello svizzero Dani Felber ho registrato l'album “More Than Just Friends”, con lo zampino del leggendario Frank Foster, ex-Count Basie Orchestra. Il disco ha vinto lo Swiss Jazz Award 2010 e sono rimasto molto contento delle note di copertina; Foster, riferendosi a un mio assolo sul brano “Discommotion” che culmina su quello che tecnicamente viene definito “Do trisacuto", fa i complimenti e scrive che non aveva mai ascoltato niente del genere in nessun’altra incisione precedente. Un complimento incredibile, pensando poi a chi lo ha scritto.
Sempre con Dani Felber, il cd “Portrait of Dani” del 2015, che contiene una mia feature solistica completa sul brano “This is for My Friend Andrea Tofanelli”, ha addirittura venduto più di 60.000 copie e vinto il Disco di Platino.
Con l'orchestra di Dani Felber
- Altri progetti?
Quelli a cui tengo di più sono “Classic in Jazz”, insieme a Max Tempia (hammond) e Massimo Serra (batteria), nel quale rivisitiamo la musica classica e operistica in una chiave jazz mai scontata e sempre fresca: esplosivo. Sempre con questo trio, eseguiamo anche un repertorio dal titolo “All Around Trio” di musica a tutto tondo, toccando cantautori italiani e americani, musica latina, classica e opera.
Poi un progetto appena nato che si sta ulteriormente sviluppando è il “Total Trumpet” eseguito in duo con Francesco Tamiati, tromba solista dell’Orchestra del Teatro la Scala di Milano, nel quale si intrecciano brani per tromba classici e jazz.
Altro progetto interessante è l’European Yamaha Trumpet All Stars Group, composto da 5 dei migliori trombettisti jazz europei artisti Yamaha, con sezione ritmica, col quale eseguiamo un repertorio infuocato tratto dai dischi di Bill Chase, Maynard Ferguson e musica rock e funky.
- Come vedi il jazz italiano con la presenza ormai trentennale di fondazioni come Siena Jazz che da una parte hanno avuto il merito di divulgare il jazz ma dall’altra hanno sfornato musicisti di livello medio a ripetizione, alla fine forse nuocendo al jazz stesso.
Bella domanda, anche se è difficile rispondere senza dissertare un po' sull'argomento.
Il jazz italiano è...jazz italiano.
Non è nemmeno europeo, per come la vedo io. È proprio italiano, forse con una punta snob per tutto ciò che non gli assomiglia. Non si può paragonare al jazz americano.
Noi non siamo gli Stati Uniti, dove il jazz è nato e si è sviluppato in modo naturale come conseguenza popolare, artistica e storica del multiforme tessuto sociale americano, in cui la musica e la cultura degli emigrati europei hanno avuto un peso importantissimo. Noi, come l'Europa intera, abbiamo importato e in qualche modo adattato il jazz alla nostra cultura, che è molto lontana da quella statunitense.

Per fortuna la musica (soprattutto il jazz) è profondamente democratica ed evolutiva. Chiunque può avvicinarla e imparare a suonare uno strumento, sia a livello professionale che amatoriale. Poi ci pensa il talento personale a fare da spartiacque. C'è chi diventa compositore, oppure direttore, oppure solista, oppure apprezzato professionista, oppure bravo docente, ecc... Le strade da percorrere offerte dalla musica sono molte.
Non dimentichiamoci che il jazz in Italia non prevedeva uno studio accademico, così come la musica leggera e la musica da ballo con cui spesso interagiva. Generi musicali che hanno sempre offerto molte possibilità di lavoro ai musicisti italiani, soprattutto a quelli che non avevano studiato in conservatorio. Infatti, i pochi studenti che decidevano d'intraprendere le strade del jazz erano guardati con sospetto e sufficienza dai musicisti e dai docenti classici, perché ritenuti non all'altezza di poter suonare la musica classica.

Il jazzista si formava quindi prevalentemente da solo o direttamente sul campo di battaglia, frequentando altri jazzisti, perché le possibilità per poter imparare il jazz erano veramente poche.
Poi però le cose sono cambiate. Le possibilità di lavoro offerte dalla musica classica sono diminuite drasticamente, fino a mettere in dubbio l'esistenza stessa degli organici orchestrali dei teatri italiani. A quel punto il mondo del jazz appariva di più facile accesso rispetto al mondo della musica accademica, ed è divenuto mèta di studio per un numero sempre crescente di giovani musicisti, sempre più interessati a percorrere una strada che sembrava offrire nuove opportunità lavorative.

L'ingresso delle classi di jazz nel mondo dei conservatori italiani ha dato poi quel tocco finale, accademico e istituzionale, che al jazz mancava. Ma, come in ogni lavoro e attività che si estende e prolifera, ci sono i pro e i contro. Se da una parte si sono scoperti più giovani talenti rispetto al passato, dall'altra si sono formati anche musicisti di livello medio. Chiunque può avvicinarsi alla musica e imparare a suonare, ma poi la differenza la fa chi veramente ha talento e capacità.

Quando da ragazzo ho frequentato i corsi di Siena Jazz ho avuto la fortuna di imparare da supermusicisti come Marco Tamburini, Bruno Tommaso, Stefano Cocco Cantini e Giampaolo Casati. Fior di strumentisti e docenti. Fui pure chiamato come prima tromba al tour dell’Orchestra Giovanile di Jazz che accompagnava in tour il trio Peter Erskine, Palle Daniellson e John Taylor. Fu un'esperienza molto bella e formativa.
Poi, per qualche ragione a me ancora oscura, il rapporto con Siena Jazz si è interrotto e non è mai più ripartito. Detto questo, credo lo spirito artistico del jazz faccia la sua strada indipendentemente da tutto ciò che possiamo costruire o distruggere, promuovere oppure ostacolare. Se un musicista è mediocre, può frequentare tutte le scuole di jazz di questo mondo e accumulare tutti i titoli di studio possibili e inimmaginabili, ma resta comunque mediocre. Questo vale per tutti i campi dell'arte.

Anche nel jazz, per un vezzo molto italiano, ci sono musicisti supportati perché ideologicamente vicini a qualcuno, ma poi la carriera dei musicisti bravi e capaci che non vengono supportati, o che non vogliono immischiarsi con la politica, continua comunque ad andare avanti grazie alla loro bravura. E grazie a Dio che è così.

- Tu che frequenti parecchio gli Usa, che differenza vedi con la Berklee di Boston?
La differenza sostanziale, a mio parere, sta in una visione più professionale e concreta del jazz. Se studi alla Berklee, niente della tua preparazione musicale e strumentale è lasciato al caso. Ti insegnano veramente a cavartela in qualsiasi situazione musicale, anche se artisticamente non sei un genio.
Studi tutto e in tutti gli stili, e fai esperienza sia solistica che di sezione in ogni tipo di organico, dal piccolo gruppo fino alla big band e oltre, fino alla grande orchestra tipo Hollywood e Las Vegas. Idem per quanto riguarda le università americane.

Il “musicista professionista” americano è qualcuno che, ovunque tu lo metta a suonare, è sempre preparato e fa sempre bella figura. Da noi invece, tanto per fare un piccolo esempio, ho saputo che nella preparazione strumentale trombettistica di alcune famose scuole di jazz italiane si tralascia completamente lo studio di un gigante come Louis Armstrong.
È un po' come se i violinisti decidessero di ignorare Paganini…
L’esigenza di uno studio completo è un’esigenza che riscontro sempre più nei ragazzi che frequentano i miei corsi, vista però da alcuni insegnanti come uno svilimento del jazz.

- Barga Jazz da questo punto di vista si è dimostrata più utile o più dannosa?
Barga Jazz è sempre stata un gioiello a parte, preziosa per tutto ciò che ha sempre proposto a livello musicale. Vedere che non viene supportata in modo adeguato e che non gli viene riconosciuto l’effettivo valore che ha, è come aprire una ferita. Forse l’unica mancanza di Barga (o forse il grande merito a livello etico) è stata quella di non essersi mai legata alla politica per ottenere aiuti.
Non c’è mai stato opportunismo, ma solo una profonda e schietta ricerca musicale di qualità. Spero che questo diventi, nel tempo, un esempio da seguire per tutto il jazz italiano.
Andrea con Giorgio Gaslini a Barga Jazz, nell'edizione
del 2004 dedicata al pianista milanese.

- Barga Jazz cosa rappresenta per te.
Per me Barga Jazz ha un valore affettivo immenso. Ho ammirato chi ci suonava prima di me come se fossero dei supereroi, sono stato onorato e orgoglioso quando dal 1995 in poi mi hanno chiamato a suonare in orchestra. Giancarlo Rizzardi dovrebbero avere i giusti riconoscimenti per tutto ciò che ha fatto per questo festival e per il jazz italiano. E invece la famiglia Rizzardi si trova oggi costretta a interrompere un festival che è un fiore all’occhiello del jazz toscano e nazionale.

- Cosa pensi della situazione in cui si è ritrovata la manifestazione.
È una delle tante (troppe…) contraddizioni italiane che ci contraddistinguono nel mondo.
Barga Jazz non doveva trovarsi in questa situazione, per tutto ciò che ha fatto nella sua storia e per ciò che rappresenta. Ripeto, forse è mancato un interesse ad alto livello, un punto di riferimento sicuro, una voce per le proprie richieste finanziarie che, oltretutto, sono sempre state molto modeste.

- Conosci esempi simili a Barga Jazz, anche all’estero, che attraversano situazioni analoghe?
Le manifestazioni italiane di jazz attraversano quasi tutte un momento particolarmente difficile. Alcune ricevono più supporto, altre resistono in extremis col poco che hanno, altre ancora crollano.
Mi sembra che i festival di jazz italiani veramente in salute siano diventati pochi. All’estero vedo un approccio completamente diverso, sia professionale che organizzativo. C’è molto più riconoscimento verso gli effettivi meriti e valore dei musicisti, senza troppi favoritismi. Purtroppo, spesso ci si scontra con lo stereotipo dell’italiano che viene ritenuto poco affidabile e becero, ma per fortuna quando poi si prende lo strumento in mano e si suona le cose si mettono a posto… Personalmente, mi trovo meglio a lavorare fuori dall’Italia che in Italia.
I festival all’estero sembrano godere in generale di buona salute rispetto a quelli italiani, con qualche sofferenza qua e là.
Recentemente sono rimasto sorpreso dall’eccellente qualità dei festival nell’Europa dell’Est e nei Balcani. Paesi apparentemente più poveri dell’Italia, che invece ritagliano spazi e fondi sempre più ampi per la (buona) musica e per la cultura.
Un tempo lo facevamo noi in Italia…

- Il tuo futuro immediato e quello più prossimo.
Continuare a fare quello che ho sempre fatto fino ad oggi e migliorare continuamente. La mia visione di come affrontare il lavoro nel mondo della musica è sempre stata molto “americana”, per cui mi sono sempre preparato a suonare tutto al massimo livello possibile, in tutti i generi.
L’esperienza specie statunitense con le grandi big band mi ha dato la possibilità di conoscere e apprezzare musicisti spesso sconosciuti ai più, che avevano attraversato buona parte della storia del jazz.
All’orizzonte ci sono alcune nuove incisioni: un album col trio “Classic in Jazz” insieme a Tempia e Serra, poi un altro disco di composizioni nuove per tromba jazz e orchestra di fiati, un ulteriore cd insieme a una superformazione di musicisti toscani appena nata che abbiamo chiamato White Orks; un disco da solista con big band, e infine la registrazione del già citato “Total Trumpet” di brani classici e jazz. In realtà, in testa avrei anche un lavoro compositivo in piccolo gruppo dedicato ai luoghi e ai paesaggi della mia terra, ovvero Torre del Lago, Viareggio e la Versilia. I brani sono quasi pronti… ma la carne al fuoco è tanta.

In questi ultimi anni mi si è rovesciato completamente rapporto del lavoro: se prima l’80% delle richieste consisteva nel fare la prima tromba in big band, nelle produzioni tv e nella musica commerciale, e solo un 20% era riferito all’attività prettamente solistica, oggi mi ritrovo a girare il mondo esibendomi con un rapporto inverso.
L’attività principale è quella da solista. Continuo a suonare come prima tromba, selezionando big band e orchestre di altissima qualità.
Anche come docente sono molto richiesto in ogni parte del mondo, ma di tutto ciò in Italia, soprattutto chi si interessa al jazz in maniera professionale, sembra se ne siano accorti solo in pochi.
Non appaio praticamente mai sulle copertine delle riviste di jazz italiane, nonostante il mio nome compaia in più lingue su Wikipedia e in molti libri ed enciclopedie. Non è un problema, ci mancherebbe altro, ma ti restituisce il senso di come siamo in Italia noi italiani.
Nell'ambiente circola una battuta, nata da un mio carissimo amico avvocato e trombettista, che dice: "In Italia se riesci ad attaccare un Sol sopra il rigo senza bisogno dell’acciaccatura fai concorrenza sleale, mentre nel resto del mondo non ti fanno suonare".

Quindi, va bene così e avanti tutta senza fermarsi mai, sempre col sorriso sulle labbra e la voglia di trasmettere energia e belle sensazioni a chi ascolta…

info web: http://www.andreatofanelli.it
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